Il termine chiave per dare l’esatta misura di District 9 potrebbe appunto essere organicità.
Nel 1982, un’astronave aliena in avaria si ritrova a stazionare immobile nei cieli sopra Johannesburg, Sud Africa. Al suo interno, un milione di creature aliene praticamente in fin di vita, debilitate dal viaggio, dalla fame, dalle malattie. Al suo esterno, un’umanità che salva loro la vita, collocandoli in un’apposita area di detenzione cittadina chiamata District 9. E questo non è che l’inizio.
20 anni dopo il ghetto del District 9 è ancora lì, con il suo alieno brulicare di miseria, disperazione e precarietà, sempre meno tollerato dal resto della popolazione umana. Imbeccata dal governo, la società privata MNU, già responsabile del controllo del District 9 e particolarmente attratta dalla misteriosa ed inutilizzabile tecnologia militare degli ospiti, decide di deportare tutta la popolazione del ghetto in una nuova area di raccolta posta al di fuori dei confini cittadini, dove i sempre più odiati gamberoni – così ribattezzati in tono dispregiativo da gran parte della popolazione umana – siano meno vicini e più controllabili. Sotto la direzione del diligente Wikus Van Der Merwe l’enorme sfratto dell’area sembra procedere senza intoppi, almeno finchè l’uomo non viene casualmente in contatto con una sostanza aliena che sembra avere su di lui un lento ma inarrestabile effetto mutante, rendendolo sempre più simile a quegli stessi alieni che si era ripromesso di deportare senza troppe cerimonie, e rendendolo in grado di maneggiare senza alcuna difficoltà quella tanto agognata tecnologia fino a quel momento negata agli umani. Diventato da quel momento l’uomo più ricercato della Terra, al fuggiasco Wikus non resta che cercare la salvezza nel luogo più pericoloso della Terra: il Distretto 9.
Tutti voltati da una parte, cani di Pavlov con rivoletto indotto d’ordinanza a lato bocca, ad attendere che all’orizzonte si stagli la tanto attesa data del 13 novembre, giorno d’esordio a stelle e strisce di 2012, quello che dovrebbe essere lo sci-fi/disaster movie definitivo del re degli imbonitori Roland Emmerich. Hanno insegnato agli aficionados e agli addetti ai lavori ad attenderlo come un messia cinematografico, presto lo insegneranno a tutti gli altri. Peccato, perchè a forza di tenere il naso all’insù una pellicola come questo District 9, commercialmente plebea e tutt’altro che sovraesposta, può aver corso il rischio di sgattaiolare tra le gambe dei più e rintanarsi in qualche antro in attesa dell’home video. Dopotutto, se non fosse per il Peter Jackson Presents che ha campeggiato su tutti i suoi manifesti, il buon esordiente sudafricano Neill Blomkamp avrebbe corso il rischio di buttare al vento i 30 milioni di dollari di budget con cui ha creato questo gioiellino sci-fi. Era da tempo che un genere cronicamente boccheggiante e regolarmente umiliato dal numero crescente di remake-immondizia aveva bisogno di qualcosa che fosse quantomeno fresco: in questo senso District 9 rappresenta un qualche metro cubo di puro ossigeno.
Nulla di rivoluzionario, nessuna nuova via al genere o chissà cos’altro – se mai fosse possibile e prevista dal codice genetico di un certo sci-fi cinematografico una tale eventualità – ma una pellicola lucida, che fa della chiarezza d’intenti – sia sostanziali che estetici – il suo solidissimo punto di forza. Il nemmeno troppo allegorico e posato riferimento al famigerato District 6 sudafricano del 1982 – e, perchè no, a modelli gestionali dell’affaire immigrazione assolutamente attuali – ed il sistematico e funzionale ricorso a tutte le soluzione narrative più efficaci dell’ultimo lustro sono le due direttive parallele ed euqivalenti su cui Blomkamp fa correre la sua pellicola: District 9 inizia come il più moderno dei mockumentary e così procede per una buona mezz’ora, arricchendo ulteriormente il suo imbastardimento narrativo con i successivi innesti di adrenaliniche camere a mano, trasmissioni TV, telecamere a circuiti chiuso e riprese classiche, risultando sostanzialmente un organico e efficace versione irrobustita ed ipervitaminizzata del suo corto d’esordio Alive in Joburg del 2005. In questo senso il termine chiave per dare l’esatta misura di District 9 potrebbe appunto essere organicità; se non perfettamente, le varie componenti messe in gioco da Blompkamp si incastrano con gran naturalezza, rendendo la pellicola un medium passibile di svariati e validi livelli di lettura ma in grado di soddisfare anche le esigenze più immediate e concrete dei cultori dell’action senza troppi fronzoli, soprattutto considerando l’esplosivo segmento finale, in cui il cerchio evolutivo e punitivo intorno a Wikus Van Der Merwe – un’ottimo Sharlto Copley, considerato che regge la baracca sostanzialmente da solo sin dall’inizio – sembra definitivamente chiudersi proprio all’interno del maledetto District 9. Assolutamente da vedere, soprattutto per chi potrebbe ancora sentire un certo qual senso di incompletezza anche dopo la visione di quella che si preannuncia la più spettacolare e credibile apocalisse che la storia del cinema ricordi.
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About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.