Le sponsorizzazioni, gli accostamenti celebri, le liaison professionali, sono tra le situazioni mediaticamente più fastidiose.
Dopo averlo abbandonato durante l’infanzia, la trentottenne Laura (Belén Rueda) fa ritorno all’orfanotrofio catalano in cui è cresciuta.
Il suo progetto è quello di trasformare l’enorme, inquietante e ormai abbandonato edificio in un casa d’accoglienza per bambini disagiati e disabili, e allargare ulteriormente una famiglia già composta dal marito Carlos (Fernando Cayo) e dal figlio adottivo Simon (Roger Prìncep), malato di AIDS. Ma sin dal primo momento, Simon pare avvertire qualcosa, giovanissime e invisibili presenze che sembrano muoversi con assoluta dimestichezza tra quelle mura. I genitori attribuiscono il tutto alla fervida fantasia del bambino, almeno finchè, durante una festa in maschera, Simon svanisce nel nulla. Parallelamente alle investigazioni organizzate dalle autorità, Laura inizia una sua personalissima e disperata ricerca, convinta che l’unico modo per ritrovare Simon sia quello di scavare a fondo nella storia dell’orfanotrofio, costantemente sull’orlo della follia, imbeccata dalle misteriosi apparizioni di (Oscar Casas), un inquietante bambino incappucciato…
Le sponsorizzazioni, gli accostamenti celebri, le liaison professionali, sono tra le situazioni mediaticamente più fastidiose. Fondamentali e spesso intenzionalmente ingannevoli per quanto riguarda mere questioni promozionali, hanno l’antipatica tendenza, pienamente supportata da una certa critica, a creare aspettative che di fatto non esistono, confronti immotivati, fantasiose analogie. E’ successo in passato per Quentin Tarantino, sta succedendo ora per Guillermo del Toro, co-produttore di The Orphanage ed incolpevole e quasi onnipresente modello di riferimento nel giudicare quello che è il primo lungometraggio di Juan Antonio Bayona. Non fosse che, con l’operato del regista messicano, Bayona non potrebbe averci meno a che fare, tolto un’ovvia e comune inclinazione nel maneggiare materiale più o meno orrorifico ed una collaborazione decisamente più economica che creativa. Precisazione necessaria questa, perchè Bayona non è certo un Del Toro più giovane e molto probabilmente non lo diverrà in futuro, perchè le basi e le motivazioni del suo cinema sono distanti anni luce da quelle del regista messicano, perchè qualsiasi regista merita un giudizio – positivo o negativo che sia – libero da ogni tipo di condizionamento, soprattutto se strumentale. E perchè The Orphanage nasce per essere una classicissima ghost story, ed in quella dimensione trova la sua ragion d’essere, per quanto limitante la si possa – giustamente – considerare. Una dimensione che Bayona, complice una cifra registica mai banale e di buon gusto, rende elegante e raffinata, arredata da una scenografia squisitamente goticheggiante, fotografata ottimamente dal lavoro di Oscar Faura, ben interpretata dai suoi protagonisti e dal meccanismo che li inghiotte, ma dannatamente prevedibile.
Nei suoi 105 minuti di durata, The Orphanage fila dritto verso una direzione che abbiamo ormai imparato a memoria, con invidiabile eleganza, certo, ma anche con l’assoluta fissità di chi, trovatosi a proprio agio entro certi stretti cofini, si limita al compitino senza mettere fuori il becco. Ed è una beffa irritante rendersi conto di come la sceneggiatura di Sergio G. Sanchez sappia regalarci i momenti migliori nei pochi frangenti in cui ha il coraggio di sganciarsi da una presunta solidità narrativa che lentamente rischia di trasformarsi in soporifero immobilismo, episodio della tecno-seduta della medium Aurora (Geraldine Chaplin) su tutti. Ma la strada è chiaramente tracciata, perchè la sostanza di cui sono fatti gli incubi di The Orphanage è affogata nel melodramma, e l’ottima interpretazione della protagonista Belèn Rueda (Mare Dentro, Savage Grace) ha gioco facile nel creare un’empatia un po’ furbetta con lo spettatore, più preda delle sue condivisibili angosce di madre che dell’eterea presenza del pur minaccioso Tomàs, in un meccanismo che, dati alla mano, ha saputo fare presa anche sul grande pubblico. Le dinamiche del terrore restano quindi relegate negli stretti confini di una porta improvvisamente spalancata, di corridoi lunghi, bui e variamente popolati, di silenzi notturni improvvisamente tagliati a fette da sinistri scricchiolii; soliti elementi di un canovaccio che, proposto tanto con eleganza formale quanto con banalità sostanziale, uccide buona parte della potenzialità orrorifica di tutta la vicenda. E’ indubbiamente una scelta di campo quella di Bayona, l’indulgere in un narcisistico autocompiacimento per le proprie indubbie capacità registiche e lo sposare una tesi narrativa che tocca facili corde piuttosto che avventurarsi per gli impervi sentieri di una maggior personalità; una scelta cha ha pagato e che, probabilmente, continuerà a farlo, perchè The Orphanage è una pellicola che sa sedurre, tocca con malizia nervi universalmente scoperti, ma ha decisamente più avvenenza che anima. Un film che comunque una visione la merita, non fosse altro che per l’ottima confezione, che conquisterà senza riserve gli irriducibili delle ghost story intossicati dai pessimi progetti analoghi provenienti di questi tempi dagli USA, e che lancerà Bayona verso lidi ben più esposti. Ma i mostri sacri, fatemi il favore, non azzardatevi a scomodarli.
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About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.