Sedetevi e allacciate bene le cinture: il giro di giostra più vertiginoso della stagione ha appena avuto inizio.
“Il mio corpo è un tempio“, “Bene, è ora che diventi un luna park“: in questo folgorante scambio di battute tra uno stoico Abe e un Hellboy mai così diabolicamente tentatore c’è tutta la bizzarra sostanza della pellicola che li vede protagonisti per la seconda volta.
Sedetevi e allacciate bene le cinture: il giro di giostra più vertiginoso della stagione ha appena avuto inizio.
L’Armata d’Oro è un temibile esercito meccanico, “70 volte 70 soldati” fatti costruire nell’antichità da Balor, Re degli Elfi, per contrastare la belligerante arroganza del regno degli umani. Una milizia indistruttibile ed inarrestabile, che sbaraglia con facilità gli eserciti degli uomini, ma il cui potere terrorizza il suo stesso creatore, che decide di stipulare una tregua con gli umani e dividere in tre parti la corona reale attraverso cui controlla l’Armata. Non tutti però sono dello stesso avviso di Re Balor: suo figlio Nuanda (Luke Goss), piuttosto che sottostare ad una tregua che non condivide, sceglie l’esilio.
Dopo millenni passati a tramare nell’ombra, Nuanda ha deciso di interrompere la tregua e scagliare l’attacco definitivo contro l’odiata razza umana: riesce a recuperare la parte della corona in mano agli umani, con l’intenzione di prendere di nuovo il comando della terribile Golden Army. Toccherà all’agente sempre meno segreto Hellboy e ai bizzarri compagni del Boreau for Paranormal Research and Defense anticipare le mosse del Principe, contrastare l’offensiva e decidere delle sorti presenti (e future) della razza umana…
Guillermo del Toro è un genio. E un bastardo. Un genio perchè è finalmente riuscito, dopo le prove generali del primo Hellboy, a piegare sotto i colpi del suo stile visionario un blockbuster annunciato che di registi personali e pretenziosi non avrebbe saputo che farsene, azione, ruffianeria e dark convenzionale da manuale a sfamare facili bocche. E l’ha fatto alla sua maniera, inserendo “caviale negli hamburger” come è solito definire il lavoro sporco, senza venir meno a quella che intuitivamente era la principale direttiva di tutto il film: incassare una paccata di soldi.
Un bastardo perchè nessuno come lui, nell’attuale panorama cinematografico, è in grado di colpire così chirurgicamente basso, portando a galla quello stupore moccioso che langue soppresso in ognuno, che si nutre di forme enormi e bizzarre, minuscole e terribili, di colori improbabili e di masse brulicanti, che spalanca le più insospettabili mascelle in infantili ghigni compiaciuti. E’ il banditore di un circo del fantastico che è riuscito a raccontarci il dramma della guerra civile spagnola attraverso le contorsioni di un labirinto: avere di nuovo a che fare con il burbero supereroe dai tratti diabolici e dai modi spicci, non gli sarà parso vero. Non a caso, la sceneggiatura scritta dal regista e dal padre legale di Hellboy, Mike Mignola, è quanto di più triviale e semplicistico ci fosse disponibile sulla piazza: una praticissima minaccia ultraterrena, e vai col tango. Un’ideale scheletro spoglio da rivestire di strati ed orpelli di quella che è la sua personalissima ed inconfondibile matrice visuale imbastardita di folklore da Vecchio Continente, reale motore di tutta la pellicola, con buona pace di una coerenza con l’Hellboy-fumetto che nei fatti manca. Ma nessuno sembra farci caso, travolti come si è dal tourbillion visivo e narrativo che accompagna Hellboy e comprimari – la pirocinetica compagna Liz (una battagliera e femminilissima Selma Blair), l’uomo-pesce Abe Sapiens (Doug Jones) ed il nuovo ectoplasmatico acquisto Johann Krauss (James Dodd) – nel loro viaggio dentro e fuori ad un mondo fantastico che l’essere umano ha ormai rifiutato e condannato a morte.
E proprio intorno a questo assunto torna quello che è il sottotesto fondamentale di buona parte della produzione del regista messicano: la dicotomia tra reale ed immaginario, tra una realtà vorace e crudele ed un fantastico che va inevitabilmente estinguendosi, proprio come il dio elementale che Hellboy elimina (quasi) senza riserve pur di guadagnare il rispetto di quegli stessi esseri umani che da lì a poco iniziano a considerarlo una minaccia. Una non-realtà costretta a rifugiarsi sotto il ponte di Brooklin – il Mercato dei Troll -, a mascherarsi da anziana senzatetto, a tramare nell’ombra di una linea abbandonata della metropolitana pur essendo il legittimo erede al trono del Regno. E ben venga il rischio di apparire banali e retorici, quando un’ipotetica retorica è il biglietto d’ingresso per una fantasmagoria di due ore che si snoda tra combattimenti tiratissimi, storie d’amore possibili ed impossibili, meccanismi titanici, fatine dei denti carnivore, momenti toccanti e gag tra il gigionesco e lo spiazzante (“Non sono un bambino, sono un tumore“, dice l’escrescenza parlante di un avventore del Mercato), e che si permette addirittura di accennare ad inattesi, futuri sviluppi della trama per bocca dell’impressionante Angelo della Morte, che prevede disgrazia e distruzione per l’unico essere umano disposto a mettere a repentaglio la propria realtà per salvare il proprio fantastico. Incorniciatelo con le musiche di sua maestà Danny Elfman (The Simpsons, Mars Attacks) e con la fin troppo ovvia ma immancabile Beautiful Freaks degli Eels e potenziatelo con un team nel dietro le quinte forgiato da anni di professionismo nel cinema che conta: avrete probabilmente la più verticale, chiassosa e colorata pellicola fantasy della stagione, per mano di un filmaker che sembra aver scoperto sulla propria pelle – leggere alla voce Mimic – l’elisir di lunga giovinezza cinematografica: finanziare i proprio eccezionali progetti personali girando per conto della ricca ed esigente Hollywood pellicole tanto leggere quanto…eccezionali. Se non è maliziosa bastardaggine questa, ditemelo voi.
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About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.