Se nel film di Jordan la violenza è il necessario tramite narrativo per affrontare tutt’altre questioni, in Death Sentence è la semplicistica impalcatura su cui reggere una fin troppo convenzionale discesa all’inferno di un’ora e mezza.
C’è un equivoco mediatico di fondo alla base di un certo tipo di critica fatta a Death Sentence: uscito più o meno contemporaneamente a Il Buio nell’Anima di Neil Jordan, la pellicola di James Wan è stata investita dall’onda non anomala di una certa critica…
Esaurito il chiacchiericcio sul complesso film del buon Neil, suddetta “critica” ha dirottato la propria autocompiaciuta dialettica sulla pellicola di Wan che, a una prima e superficiale analisi, rappresentava il successivo oggetto di culto, con tutto quel furbesco sporcarsi le mani con la giustizia fai da te e con la figura del giustiziere solitario. Non fosse che, con Il Buio nell’Anima, Death Sentence non potrebbe averci meno a che fare.
Nick Hume (Kevin Bacon) è un americano felice: dopo ogni faticosa e soddisfacente giornata di lavoro nell’azienda di cui è vicepresidente, torna nella sua bella casa di un tranquillo sobborgo residenziale, accolto a braccia aperte dalla sorridente e amorevole moglie Helen (Kelly Preston) e dai figli Lucas e Brendan. Ma la tragedia, ovviamente, è dietro l’angolo. Durante una breve sosta di rifornimento in una zona malfamata della città, il figlio maggiore Brendan resta ucciso dopo una brutale aggressione, vittima di quello che si scoprirà essere il rituale d’iniziazione alla vita malavitosa di un fresco affiliato alla gang locale. Nick, considerata la relativa impunità di cui godrà l’assassino del figlio, decide di farsi giustizia da solo, scatenando una guerra senza fine nè vincitori con tutti i membri della gang.
Se nel film di Jordan la violenza è il necessario tramite narrativo per affrontare tutt’altre questioni, in Death Sentence è la semplicistica impalcatura su cui reggere una fin troppo convenzionale discesa all’inferno di un’ora e mezza. Punto. Non che questa sia una colpa a prescindere, del resto la storia del cinema è piena di film violenti giusto per il gusto di esserlo, eppure dannatamente divertenti. Il tutto a patto che vengano rispettate un paio di semplici regole: una narrazione solida, personaggi convincenti ed avvincenti, qualche scena d’azione ben fatta. Delle tre regole, Wan ha deciso di ignorarne bellamente un paio . Come già successo per Dead Silence, sembra che per l’ennesima volta la fretta di finire il lavoro abbia giocato un brutto scherzo al regista malesiano: le 2/3 scene di azione pura,inseguimenti e sparatorie, dove si nota e si apprezza un certo lavoro di studio e di preparazione più approfondito, galleggiano stancamente nell’irritante mare di approssimazione preparato dallo sceneggiatore Ian Jeffers (che curerà il prossimo adattamento di Castlevania). Certo, non che il modello letterario di Brian Garfield – autore di quel Death Wish che ha fatto le fortune di Charles Bronson – sia un capolavoro di originalità e complessità, ma il problema è più una questione di robustezza e solidità della narrazione, un qualcosa che non sia un mero riempitivo tra una scena d’azione e l’altra.
Tolto un Kevin Bacon dall’interpretazione al solito valida, il resto è noia, se non irritazione: personaggi che avrebbero potuto donare ben altro spessore alla narrazione vengono relegati a ruoli marginali e a tratti incomprensibili – la detective Jessica Wallis interpretato da Aisha Tyler – ; stereotipi di villains talmente brutti, tatuati e cattivi da sembrare maschere di una qualche Commedia dell’ Arte made in downtown, o brutti ceffi da Pubblicità Progresso contro la criminalità giovanile: gente tosta, capace di scatenare senza batter ciglio venti minuti di totale delirio in pieno centro cittadino in una delle scene meglio riuscite del film, salvo poi farsi ammazzare come mosche da un Nick Hume tanto risoluto quanto evidentemente a corto di fiato e di pratica nel maneggiare armi da fuoco; si salva di gran mestiere un John Goodman sorprendentemente a suo agio nei panni del laido ed untuoso trafficante d’armi e padre, putativo e non, della gang; in generale, manca quell’attenzione per il particolare e per tutto ciò che è contorno che si rivela fondamentale in un lavoro che non può certo brillare per originalità. Sempre più confuso e contuso, Nick Hume si trascina in un contesto che si porta dietro una fastidiosa sensazione di artificiosità, popolato da individui troppo fittizi perchè possano scatenare il pur minimo coinvolgimento, fino allo scontato finale in cui, fatta piazza pulita e soddisfatta la propria sete di sangue, l’ormai zombesco protagonista si concede un meritato amarcord di quello che fu e non potrà mai più essere, classica retorica sull’uso di una violenza che appiana ogni differenza morale e non tra vittime e carnefici, e via con i titoli di coda. Ce n’era davvero bisogno? Probabilmente non è questa la domanda più corretta, del resto la pellicola ha riscontrato un discreto successo di pubblico, ma per favore, non andiamo a scomodare chi, su vendetta, violenza ed affini, qualcosa da dire l’ha davvero avuto.
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About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.