Da Seven a Panic Room passando per Fight Club, David Fincher ha dedicato buona parte della sua carriera a leggere allegoricamente i segni dei tempi.
Estate 1968, San Francisco e la sua personalissima legge del contrappasso: le ultime scorie della sognante Summer of Love di un anno prima vengono spazzate via dall’incubo terribilmente più concreto di Zodiac, un serial killer che inizia ad operare nella vastissimo territorio della Bay Area, rivendicando beffardamente i propri crimini a giornali e polizia tramite messaggi cifrati. Sulle sue tracce, una coppia di detective della omicidi, un’astro nascente del giornalismo californiano ed un vignettista talentuoso e naif: un’inufruttuosa caccia all’uomo che si protrarrà per più di vent’anni e che segnerà in modo indelebile le esistenze dei suoi protagonisti e la vita civile di un’intera comunità.
Che David Fincher avesse l’impegnativo vizio di ficcare il naso nelle pieghe nascoste della società, nelle sue dinamiche più sotterranee e nelle relative ossessioni, è un fatto ormai assodato da tempo: da Seven a Panic Room passando per Fight Club, il regista ha dedicato buona parte della sua carriera a leggere allegoricamente i segni dei tempi, disegnando ritratti, ora caustici ora a tinte noir, di una società ripiegata sulle proprie paure, vittima dei suoi stessi figli. Conclusi i tempi dell’allegoria, deve aver pensato fosse giunta l’ora di metter mano alla storia: quale miglior storia se non quella tragica, infinita, sporca e contraddittoria del primo serial killer mediatico che la cronaca nera a stelle e strisce ricordi? 25 anni di accurata cronaca investigativa, giudiziaria e di costume, un’enormità di materiale cartaceo ed umano con cui confrontarsi, la falla attraverso cui l’atto criminale sfonda i recinti della cronaca per dilagare nelle immense ed incontrollabili praterie del costume. Zodiac è la testimonianza di tutto questo, e molto altro. A garantire la fedeltà storica di quanto riportato, Fincher sposa impostazione e tesi del completissimo romanzo-inchiesta Zodiac di Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal), ai tempi giovane vignettista del San Francisco Chronicles e ben presto componente attivo di quella eterogenea e inconsapevole task force che venne a formarsi a partire dal 1968, dopo le prime rivendicazioni da parte del killer.
E’ anche un ardita sfida cinematografica, un thriller assolutamente anticonvenzionale, che sacrifica in nome di un’invidiabile completezza cronachistica tutti gli elementi che del thriller dovrebbero essere i punti imprescindibili: le botte di adrenalina, le improvvise accelerazioni del ritmo, una figura antagonista forte e presente. Nonostante un cast stellare per nomi e interpretazioni – eccezionali Mark Ruffalo nei panni del detective Dave Toschi e Robert Downey Jr. in quelli dell’autodistruttivo giornalista Paul Avery – quello su cui indugia l’occhio tutto digitale di Fincher è ben altro: il suo sguardo è quello dell’entomologo che osserva al microscopio i propri personaggi dimenarsi come mosche cieche, rese folli da un’ossessione che li porta lentamente ad una deriva umana e professionale; quell’ossessione che è l’unica, vera protagonista della vicenda: l’inchiesta stessa, scandagliata in ogni suo passaggio, vicolo cieco, inversione di marcia, ripartenza. La narrazione mantiene quindi una sostanziale lentezza di fondo, necessaria se si considera l’enorme quantità di dati ed informazioni che vengono snocciolati, soprattutto attraverso lunghi dialoghi e continui confronti tra i protagonisti. Ad ognuna delle tre figure principali – Toschi, Avery, Graysmith – vengono dedicati blocchi narrativi che si alternano ed intrecciano, resi omogenei e consequenziali dai continui sviluppi dell’inchiesta stessa.
I classici picchi di adrenalina vengono dilatati e spalmati lungo tutta la pellicola, impaludando uomini ed eventi in un sottile ma persistente senso di paranoia e disagio. L’unico che riesce a sfuggire all’occhio impietosamente scientifico del regista è Zodiac stesso, inafferrabile e invisibile burattinaio dei destini altrui, sfuggente e visibile solo in un paio di efficaci sequenze: una dove la figura è avvolta in un bizzarro travestimento, l’altra dove è incarnato dall’inquietante volto di John Carroll Lynch nei panni di Arthur Lee Allen, il più papabile tra i 2500 sospettati e deceduto per cause naturali nel 1991, appena prima che ne venisse ufficializzata l’incriminazione. Nonostante una formalità impeccabile e misurata, Zodiac è un film ostico ed eccessivo, nel senso letterale dei termini: per vastità tematica, durata, anticonvenzionalità narrativa ed ambizioni. Una pellicola tanto ostica quanto seducente, assolutamente necessaria per chi si è appassionato al soggetto dopo la lettura di Zodiac ed il successivo Zodiac Unmasked, intrigante per chiunque cerchi qualcosa che vada ben oltre i più banali slasher mascherati da biografie di serial killer.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.