Avati, così come Bava Jr e Argento, tenta di rendere il suo stile più moderno e, se da una parte utilizza elementi tipici del suo cinema dall’altra tenta di sfornare un prodotto meno riflessivo e più dinamico rispetto ai precedenti.
Riguardo la rinascita dell’horror italiano, credo si possa essere piuttosto ottimisti. Non solo perché un’agguerrita schiera di giovani registi compatrioti che gioca col terrore si sta facendo largo; ma anche perché molti dei grandi vecchi stanno timidamente tornando al nostro genere prediletto.
È il caso di Lamberto Bava con Ghost Son, di Dario Argento con La Terza Madre e di Pupi Avati, con questo suo Il Nascondiglio. Tutti prodotti imperfetti, per carità, ma che nascondono entusiasmo e soprattutto voglia di “esportazione”. A differenza dei giovani (sicuramente più creativi e selvaggi), i “vecchi”, possono puntare su più mezzi e su “nomenclature proprie” di un certo effetto, sfruttando tutto ciò per tentare la fuoriuscita dai confini nazionali.
Il nascondiglio, ad esempio, per rimarcare il fatto che, di una semplice distribuzione italica non sa che farsene, è stato girato in lingua inglese e inizierà a breve una serie di proiezioni test in territorio USA. Insomma, pian pianino, molto lentamente, qualcosa e qualcuno si sta muovendo e questo fa perdonare molte sbavature: per aggiustare il tiro c’è tempo, ma prima di morire asfissiati da esaminandi e lucchetti sui ponti, bisogna muoversi velocemente, sfondare un muro che – ad attardarsi troppo – rischia di massacrarci tutti. La storia di questo nuova incursione avatiana nell’horror prende spunto da una vicenda reale (ne potete sapere di più leggendo la postfazione del libro Il Nascondiglio, scritto dallo stesso Avati). A Davenport, nell’Iowa, una donna di origini italiane, appena uscita dalla clinica psichiatrica dove è stata ricoverata per quindici anni in seguito al suicidio del marito, decide di aprire un ristorante in una casa antica e misteriosa, senza sapere che, quella stessa dimora, cinquantacinque anni prima, è stata sconvolta da un terribile delitto. La casa sussurra e scricchiola sinistramente, e la gente del posto, non sembra molto contenta della nuova arrivata. Qual è il segreto di quella dimora e cosa cercano di nascondere tutti quanti?
Avati, nell’arco della sua carriera, ha dato vita a sei horror (compreso questo); tutti diversi, ma segnati da uno stesso, inconfondibile stile. La casa dalle finestre che ridono ha l’aspetto di un film maledetto, Zeder risulta tipicamente anni ’80 e L’arcano incantatore punta tutto sull’atmosfera e la suggestione; eppure, è facile ritrovare in tutti e tre, il tocco omogeneo di uno stesso regista. Tre esempi di come una mano sempre riconoscibile, possa assumere forme ed espressioni sempre diverse. Nel caso de Il Nascondiglio, il regista, mette in scena un giallo-thriller commistionato con elementi horror, i quali, pur non facendola da padrone, aumentano – diventando più decisi – man mano che la storia avanza. Il nucleo centrale della vicenda, infatti, è l’indagine che quasi relega in secondo piano i momenti di terrore e di soprannaturale. Nonostante quest’approccio non comprometta seriamente il risultato finale del film, rischia di lasciare gli horrorofili più esigenti con un senso di “carino ma non lo rivedrei”. Avati è sempre stato un abile narratore oltre che un regista evocativo, capace (in quasi tutti i suoi film) di raccontare storie insolite e originali. Anche in questo caso parte da un’idea parecchio gustosa, quello di una vecchietta che si aggira per i condotti d’areazione di un’antica dimora trascinandosi dietro un sacco dal contenuto misterioso. Purtroppo per noi, però, il film – a differenza degli altri horror made in Avati – sembra volersi rivolgere a un pubblico di non soli appassionati e, a rimetterci, sono gli elementi per noi più interessanti. Puntare maggiormente sulla vecchia abitatrice della casa, rendendo la storia un po’ più claustrofobica e domestica, avrebbe garantito un miglior sfruttamento del materiale di partenza. Ma non c’è da piangere troppo, il film si regge bene ed ha tutte le carte in regola per ottenere una distribuzione straniera. Avati, così come Bava Jr e Argento, tenta di rendere il suo stile più moderno e, se da una parte utilizza elementi tipici del suo cinema (il paesino che nasconde un segreto, la vecchietta dalla voce sospirosa), dall’altra tenta di sfornare un prodotto meno riflessivo e più dinamico rispetto ai precedenti. Il rischio, chiaramente, è quello di perdere qualcosa per strada; eppure a guardar bene, ci si rende conto che non mancano nuovi propositi molto interessanti ma tutti ancora da sviluppare. La verità – sospetto – è che i grandi vecchi stiano cambiando per adeguarsi ai tempi (d’altronde, fare oggi La casa dalle finestre che ridono non avrebbe molto senso), e questo rinnovo richiede i suoi tempi. È come se esordissero nuovamente, generando prodotti ancora acerbi ma molto promettenti. Se stiano cambiando in meglio o in peggio, potrà dircelo solo il tempo. Ma già il fatto stesso che stiano cambiano, rimettendosi in gioco e sperimentando senza tentare ostinatamente di imitarsi, è di per sé cosa buona e giusta. E già fibrillo in attesa delle “opere seconde” di questi giovani vecchi…
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