In un periodo dove il barocchismo delle immagini sembra essere l’unica via indicata, i nostri battono con convinzione la coraggiosa strada dell’essenzialità.
Clementine e Lucas vivono in un enorme casolare sperso in una fitta macchia di boscaglia appena fuori Bucarest. Lei è un’insegnante di francese in un istituto della capitale, lui uno scrittore impegnato nella stesura del suo prossimo lavoro, e accolgono senza particolari patemi l’isolamento estremo in cui l’abitazione versa, che garantisce loro la pace e la tranquillità di cui Lucas ha bisogno.
Un esordio decisamente interessante quello firmato dal duo David Moreau/Xavier Palud: pur sfruttando un impianto narrativo spartano e non particolarmente originale, scritto a quattro mani dagli stessi registi, riescono a tirare fuori dal cilindro una lavoro che nella sua esecuzione brilla per personalità e scelte stilistiche decisamente controcorrente, soprattutto se confrontato con le analoghe produzione d’oltreoceano.
In un periodo dove l’eccesso, il superamento di ogni limite, il barocchismo delle immagini sembrano essere l’unica via indicata, i nostri battono con convinzione la coraggiosa strada dell’essenzialità formale e sostanziale: riducono all’osso i dialoghi, servendosene solo se estremamente necessario (soprattutto nella parte iniziale); si affidano alla fotografia del bravo Axel Cosnefroy, che dona alla pellicola una generale atmosfera d’inquietudine attraverso un sapiente gioco di luci ed ombre e un uso del colore che vira su tinte scure ma pacate, senza esasperarne i contrasti se non in una delle scene finali, quando è assolutamente funzionale al racconto; relegano le musiche al ruolo di tappeto sonoro mai invasivo, che accompagna discretamente le immagini senza mai eccedere, rinunciando coraggiosamente a uno degli elementi più sfruttati (e abusati) nella difficile arte del creare tensione.
Eppure la tensione c’è, eccome. Una tensione che cresce costantemente, irrobustita dal mistero che si cela dietro agli sconosciuti assalitori, invisibili sino alla fine, e la cui presenza è manifestata esclusivamente dal rumore dei passi, dalle loro ombre, dal persistente senso di minaccia che pervade la casa. Ed è proprio questo il più grande merito dei due registi: il saper recuperare con successo determinate “dinamiche della paura” che sembravano languire da troppo tempo in soffitta, sfruttando in modo apprezzabile il suggerito piuttosto che l’esplicito. Una tensione che, una volta tanto, è figlia di pretesti reali e realizzabili, che fanno leva su paure concrete, quotidiane, condivisibili.
Ottimo è il contributo della protagonista Olivia Bonamy (Bloody Mallory) che offre un’interpretazione tesa e convincente, dato fondamentale nell’economia del film considerato che deve reggere da sola la scena per più di metà del film, relegando il pur bravo Michael Cohen (Emilie Est Partie) al ruolo di coprotagonista. A voler cercare il pelo nell’uovo, il vero punto debole di tutta la produzione, come già detto, sta nell’eccessiva semplicità della sceneggiatura, ma si chiude volentieri un occhio, visto ciò che di apprezzabile sono riusciti a sviluppare con il loro esordio. Talmente apprezzabile che i due, seguendo lo stesso percorso del connazionale Aja, sono stati reclutati da Hollywood per occuparsi dell’ennesimo remake, stavolta di The Eye. L’unico augurio è che il loro indiscusso talento non finisca a macerare nell’odioso calderone dei remake, diventato, ahinoi, il trend assoluto delle attuali produzioni horror.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.