L’esordio di Rob Zombie sul grande schermo è stato una piacevole e decisamente inaspettata mosca bianca.
30 Ottobre 1977. Due giovani coppie sono in viaggio nell’infinita e indefinita provincia americana, mosse esclusivamente dallo spirito d’avventura e dalla ricerca delle più disparate leggende del folclore a stelle e strisce. A corto di benzina, trovano aiuto in una sperduta e colorita stazione di servizio, gestita dallo strambo clown Captain Spaulding (Sid Haig). Una volta dentro, scoprono che il luogo ospita anche un bizzarro museo degli orrori, con tanto di giro turistico tra alcuni dei peggiori serial killer della storia americana, tra i quale spicca il Dr. Satan, sorta di celebrità locale. Decisi ad approfondire la conoscenza di questo terribile individuo, i quattro ottengono da Spaulding le indicazioni per raggiungere l’albero dove anni prima il feroce dottore sarebbe stato impiccato.
Non ci arriveranno mai: dopo aver aiutato un affascinante autostoppista, diverranno ignari ospiti della sua feroce famiglia di psicopatici, dedita a satanismo, cannibalismo, e al culto di un sadico folle che tutti credevano morto…
Per quanto imperfetto e discusso in diverse delle sue peculiarità, è innegabile che l’esordio di Rob Zombie sul grande schermo abbia rappresentato una piacevole e decisamente inaspettata mosca bianca nel mare di acque scure in cui sembra navigare da tempo il cinema horror. Un film che ci concede l’ennesima ma sempre necessaria dimostrazione che un autore che abbia stoffa può anche partire da un modello narrativo assolutamente abusato, sfruttato fino all’osso da ogni angolazione possibile, e regalarci un lavoro valido e assolutamente godibile.
Scopriamo l’acqua calda: il film è permeato dal primo all’ultimo fotogramma dal fantasma nemmeno particolarmente invisibile di quel capolavoro assoluto che è The Texas Chainsaw Massacre. Lo è in modo dichiarato, spudorato, eclatante. Ed è proprio dove decine di altre produzioni hanno fallito in modo infame, limitandosi a scimmiottare anonimamente questo o quel particolare del ben più celebre modello, che Zombie fa saltare il banco, dimostrando una personalità creativa davvero brillante.
Riuscire a dare un taglio fresco e innovativo a una trama quantomeno esigua, non era un compito facile: Zombie c’è riuscito. Ha creato un insieme di personaggi, i Firefly, sì assolutamente debitori verso una certa tradizione horror, ma allo stesso tempo originali in quel loro sembrare usciti da un grottesco fumettaccio degli anni ’70 o ’80, portatori sani di una carica cartoonesca al limite del demenziale subito disinnescata da un uso sapiente dello splatter e della violenza cui sono soliti sottoporre le proprie vittime. Tanto che Spaulding, ancora più del co-protagonista Otis (Bill Moseley), è sin da subito stato eletto all’Olimpo dei personaggi cult. La stessa Mother Firefly (una sempre grande Karen Black) e Baby (Shery Moon) si incastrano come ingranaggi perfetti nel folle meccanismo della famiglia Firefly. Il regista dimostra anche una certa logica nella gestione dei tempi narrativi, lasciando scivolare la pellicola in un inarrestabile crescendo di orrore e disgusto, infarcendo di divertentissimi dialoghi sempre sul filo del non-sense quella che è un’ovvia necessità narrativa, impreziosendola ulteriormente. Ciò che stride maggiormente rispetto all’interezza della pellicola, è la parte finale, quando entra finalmente in scena il famigerato Dr. Satan.
Se fino a quel momento la pellicola viene condotta in porto da Rob Zombie regista e sceneggiatore, fedele a un registro espositivo più o meno classico, ora è il Rob Zombie fan dei film horror di serie z a dirigere le operazioni. In un totale collasso narrativo, Zombie mette nel pentolone sconosciuti b-movie, morti viventi, una fotografia sclerotica, biomeccanica, schegge impazzite di cultura pop, il tutto cucinato e presentato in modo assolutamente anarchico, quasi fosse un video musicale dei mai abbastanza amati White Zombie, il cui eco risuona prepotente anche nelle tracce della bella colonna sonora. Il risultato è parecchio destabilizzante, e ha sortito nel pubblico effetti diametralmente opposti. E’ comunque innegabile come questa sia la parte più debole del film, come se Zombie fosse venuto meno a certi obblighi narrativi e avesse dato via libera all’inventiva più pura. In ogni caso, visto in un’ottica assolutamente ludica, è un blocco comunque godibile, lungi dall’inficiare il valore complessivo di una pellicola da molti considerata il più valido e sincero remake del capolavoro di Hopper, per quanto ovviamente non ufficiale. Un valore decretato dai fans accorsi in sala ancora prima che dalla critica, visto e considerato che la Lions Gate ci ha pensato più di una volta prima di pubblicarlo in un’atmosfera di assoluta cautela, terrorizzata dal severo giudizio della MPAA, che gli affibbiò una R, vietandolo ai minori di 17 anni non accompagnati. 25 milioni di dollari incassati al botteghino e due nomination all’ International Fantasy Film Award, dove ha trionfato per gli effetti speciali del duo Wayne Toth/Michael O’Brien, sono il suo più che onorevole palmares. E chi attendeva al varco il suo secondo lavoro, deve essere rimasto di sasso. La Casa dei 1000 Corpi è un buon lavoro; La Casa Del Diavolo (2005) è molto, molto di più.
About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.