Un sequel che in comune con l’originale ha solo il titolo… e poco più!
Alzi la mano chi si aspettava un seguito di L’uomo senza ombra. Il film di Paul Verhoeven non era certo tra i migliori del regista di Robocop: eppure, meraviglie della settima arte, ecco confezionato il capitolo secondo. Che, è bene dirlo subito, con l’originale ha in comune il titolo e poco più… Verhoeven è produttore esecutivo, mentre sceneggia l’instancabile Joel Soisson, responsabile della scellerata trilogia Dracula’s Legacy con l’imprimatur di Wes Craven, e apparentemente votato ai sequel (nel carnet anche i copioni di Mimic 2, Highlander: Endgame e Prophecy 3).
Nel cast, il nome “pesante” è quello del bollito Christian Slater, ormai senza vergogna dopo l’esperienza con Uwe Boll, e comunque in scena per una manciata di minuti; gli altri, a iniziare dal vero protagonista Peter Facinelli (Six Feet Under), sono volti paratelevisivi. Il legame con l’originale è liquidato in quattro e quattr’otto, con un un frettoloso flashback centrale a fare da pezza: archiviato l’insuccesso del primo esperimeno, il siero dell’invisibilità è testato su nuove cavie. L’intento è sempre quello di creare soldati invisibili (a che pro, poi, visto il grado di sofisticatezza raggiunto dalla tecnologia bellica? si chiedeva Roger Ebert all’epoca del film di Verhoeven: e in effetti un uomo invisibile avrebbe vita dura contro i rilevatori di calore corporeo e movimento), e una delle cavie è un reduce dall’Iraq, tale Michael Griffin (notare il richiamo all’uomo invisibile originale di H. G. Wells), il quale – si intuisce da una mezza parola buttata lì – avrebbe da nascondere qualche malefatta bellica. Una volta reso invisibile, però, Griffin è vittima di una degenerazione cellulare che lo porterà alla morte se non gli verrà iniettato un siero-tampone. Comunque sia, tutto ciò viene a galla solo quando il plot è già in moto da un pezzo.
Andiamo con ordine: il detective Turner (Facinelli) è incaricato di proteggere la biologa Maggie Dalton (Laura Regan), unica rimasta in vita di un team di ricercatori passati a miglior vita nei modi più disparati per mano ignota; l’ultimo della serie viene liquidato da Griffin nella sequenza iniziale, una delle migliori del film: un tizio ubriaco a una serata di gala è sballottato qua e là da una presenza invisibile, trascinato nei bagni del lussuoso hotel dove si svolge il party e lì sgozzato con l’affilatissima scheda di un cellulare. Turner mal gradisce l’ingerenza dell’esercito e dei servizi segreti in quella che parrebbe una normale missione di sorveglianza: ma quando il tutto si rivela una trappola per l’uomo invisibile, destinata perlopiù a finir male (a lasciarci le penne è la collega di Turner, dopo un faccia a faccia – si fa per dire – con Griffin), decide di fare a modo suo: sottrae la Dalton ai militari e cerca di capirci qualcosa. Di certo Soisson non si è spremuto troppo le meningi: l’idea del detective appaiato alla scomoda testimone, alla ricerca del colpevole ma braccati dalle autorità, è una trovata vista e stravista in decine di polizieschi e noir. E di fatto L’uomo senza ombra 2 è per buona parte una specie di thriller con una componente fantastica marginale. Come mai? Presto detto: limiti di budget. Non aspettatevi nulla di lontanamente paragonabile alle mirabili trasformazioni a vista di L’uomo senza ombra, ispirate in pari misura a Leonardo, al museo della Specola e ai cadaveri-statua con tessuti muscolari a vista ottenuti tramite plastinazione da Gunther von Hagens: gli effetti in CGI sono pochi e scarsucci (qualche vena che riaffiora, impronte su un tappeto di moquette, la sagoma dell’uomo invisibile che si intuisce sotto la pioggia), la metamorfosi di Slater nel flashback esplicativo è mostrata di sfuggita, perdipiù riciclando una sequenza dell’originale. Il piatto forte dovrebbe essere il confronto finale tra Griffin e Turner, il quale per scontrarsi ad armi pari col nemico non ha trovato di meglio che iniettarsi il siero: ma il climax è tutt’altro che memorabile.
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